“Nomade digitale”. Ero a Bali la prima volta che ho sentito usare queste parole insieme. Dotty mi accoglie a casa sua dicendomi che la stanza è libera dopo mesi in cui ci aveva vissuto una ragazza tedesca che lavorava nel marketing.
Io non capisco bene cosa intenda ma sento dentro un click. Scatta una molla. Anche io. Nomade. Digitale. A casa ovunque. A casa mai. Sola nel mondo. Isolata in nessun luogo. Inventare nuove radici. Allungarle ed estenderle come arti sabbiosi rivelati solo dalle maree. Il ritmo delle onde che copre e svela parti di me, ancorandomi a baie sempre nuove.
È possibile vivere così?
Un mese. Trentuno giorni dal rientro. Nemmeno un pianto. Non un attimo di cupa disperazione come dopo ogni altro viaggio. Ballo alla fine di ogni giornata. Mi basta mettere in sottofondo Calm Down e la brezza oceanica mi scompiglia i capelli. Attorciglia i pensieri. Un mese. Trentuno giorni senza vacillare un secondo.
Un tempo lungo e rapidissimo dentro cui sarebbe stato ovvio cedere alla nostalgia. Perché arrivata a Zanzibar ho sentito di essere a casa. In aeroporto ho promesso che sarei tornata. E dunque non c’è spazio per le lacrime, per le cose perdute. C’è spazio per programmare. Un altro biglietto aereo. Le date sono solo numeri. I giorni si possono moltiplicare o ridurre. Un mese di calcoli, preventivi, notti insonni a pensare come fare.
Un mese in cui la fatica di non avere punti di riferimento mi ha divorata. Non mi sono mai chiesta se fosse giusto. È giusto. Mi sono solo domandata come fare praticamente. Sono piombata sola su un pianeta inesplorato. Non è una vacanza. Non è svernare al caldo.
È il primo passo per imparare a chiamare casa il mondo intero. È il conto alla rovescia per tornare dove sono stata immensamente felice. Dove la gioia mi ha travolta al primo battesimo nell’Oceano. Perché partire è meraviglioso. Ma tornare, tornare è autentica magia. A presto.